Alcune considerazioni riguardo alla mia personale esperienza del Training 7days tenuto a Sacrofano appena la settimana scorsa da Jon kabat Zin e Saki Santorelli.
Comprendere veramente il significato della parola mindfulness presuppone una sperimentazione delle pratiche, ed un impegno piuttosto serio nell’incontrare se stessi senza giudizi.
Sono due i pilastri su cui poggia questa ricerca interiore: la mente e il cuore.
A tutti gli effetti si tratta di porsi con gentilezza ed apertura nei confronti di se stessi. L’intimità che viene a crearsi, con se stessi e con il gruppo, durante il percorso ne è essenza fondante e da questa non si può prescindere: intimità accresciuta anche dalla dolcezza con la quale, Santorelli e Kabat-Zinn ci hanno costantemente accompagnato. E per questo sarò loro sempre molto grata.
Rispecchiare consapevolmente la flessibilità della mente. Prendere effettivamente coscienza di quanto, già naturalmente in qualità di esseri umani, siamo in possesso della facoltà di dare risposte originali (intendendo con questo non dettate da abitudini mentali, non automatiche, non in una parola, inconsapevoli) agli stati emotivi che sorgono in noi, causati o meno da input esterni.
La plasticità del cervello è stata studiata, anche se magari non ancora abbastanza ampiamente, grazie al supporto delle nuove tecnologie, ed i progressi nel campo delle neuroscienze hanno confermato l’intuizione che esercitare la capacità della consapevolezza (parola con la quale comunemente si definisce mindfulness nella nostra lingua) comporti benefici a tutti i livelli (fisico emotivo psichico) della nostra persona. Nella relazione con noi stessi, nella relazione con gli altri.
Questo training è volto alla diffusione delle pratiche di mindfulness, i cui principi nella forma di protocolli stanno dimostrando di essere incredibilmente efficaci all’integrazione corpo/mente ed allo sviluppo di alcune funzioni cerebrali. Per far fronte ai ritmi di vita occidentali, decisamente stressanti, per incontrare pienamente le nostre potenzialità, per essere capaci di realizzare i nostri progetti è importante essere sempre più intimi con noi stessi, e consapevoli di quel che viviamo a livello fisico e mentale.
La pratica della consapevolezza, o mindfulness, svolta in prima persona, oltre ad essere una modalità efficace per migliorare la qualità della vita, nostra e degli altri (in quanto è fondamentale la componente intersoggettiva di queste pratiche, nella relazione con le persone che abbiamo intorno), è anche il primo requisito, per coloro che desiderano applicarla professionalmente, per poter accedere ad un training volto all’insegnamento dei protocolli stessi.
Trattandosi di una qualità dell’attenzione che rivolgiamo, di volta in volta, a differenti oggetti di studio, e poiché si tratta di diventare sperimentatori del proprio essere, non si può prescindere nel prendere contatto con le pratiche dal farne esperienza diretta. Non si tratta di un tipo di conoscenza concettuale, e questo, per il mondo occidentale, è piuttosto inusuale. Che non ci sia un sistema teorico come comunemente intendiamo l’insegnamento da impartire per avere dimestichezza con queste pratiche, è logico considerando che è una modalità nuova di rapporto con se stessi che “si impara sul campo”, quindi,sebbene ci sia ampia letteratura a riguardo, è essenziale vivere l’esperienza in prima persona.
Per diventare un istruttore MBSR (mindfull based stress reduction), oltre ad una pratica costante, è importante conoscere i concetti fondamentali del buddismo, come ad esempio, le quattro nobili verità , che sono il cuore dal quale trae origine la mindfulness.
Tuttavia le pratiche sono volte a trovare un sistema per incontrare quello che siamo, la materia e la sostanza che ci compongono, scevri nella nostra analisi da preconcetti dettati da abitudini mentali. Non sono quindi un semplice programma di addestramento di nuovi insegnanti.
Le nostre risposte agli eventi sono dettate da un sistema fisico evolutosi per essere il più funzionale possibile alla sopravvivenza della nostra specie. Questo significa che molti dei nostri comportamenti sono determinati da automatismi che hanno avuto enorme importanza evolutiva ma che ormai, nel mondo in cui viviamo sono costruzioni teoriche di risposte filogenetiche alle sollecitazioni dell’ambiente.
Il training è un’esperienza molto intensa. Pur non essendo un ritiro vero e proprio, i ritmi sono decisamente serrati, per il numero e la diversità di pratiche proposte, tra cui anche lo yoga consapevole nonché le integrazioni con nozioni scientifiche: con semplicità e chiarezza vengono presentati i concetti fondanti delle pratiche e dei protocolli MBSR, ai quali è utile rivolgersi con mente vergine ed aperta,
Le giornate si svolgono in un alternarsi di pratiche sedute e camminate, dapprima con l’esercizio dell’attenzione indirizzata all’osservazione del respiro, e poi con esercizi guidati (con molta capacità e attenzione) sui diversi oggetti dell’attenzione, il suono, ad esempio, fino poi a praticare con consapevolezza aperta, senza oggetto.
Il primo giorno per presentare con un esercizio che riassume nella sua semplicità tutte le potenzialità e la funzionalità concreta delle pratiche mindfulness, spendiamo parte del pomeriggio nel conoscere nuovamente, con occhi nuovi, in modo nuovo, un acino d’uva passa.
In questa semplice pratica possiamo venire a conoscenza di quanta superficialità accompagna il nostro contatto con il mondo e quanto invece qualsiasi esperienza non liquidata come conosciuta o banale sia ricca di novità nonostante sia stata già vissuta. Ogni oggetto può diventare oggetto della nostra attenzione cosciente e quindi nuovo, libero dalle categorie nelle quali lo poniamo normalmente. In ambito clinico questi protocolli sono uno strumento molto utile per creare una nuova relazione con l’oggetto cibo in persone affette da disturbi alimentari, ad esempio. Esattamente come con l’uvetta, possiamo conoscere in modo nuovo il nostro respiro, imparare a sentirlo nel corpo, imparare la sua ritmicità meccanica e naturale. Imparare la sua espressione, di volta in volta differente.
Durante la pratica, non andiamo ad intervenire sull’oggetto dell’attenzione, e così come ci limitiamo ad osservare il respiro come atto del nostro organismo, allo stesso modo, ci rendiamo conto che il pensiero che sorge nella mente, ne è la sua espressione naturale. E questo chiarisce perché spesso siamo letteralmente aggrediti dai pensieri che crediamo di produrre. Il pensiero è atto della mente così come il respiro è atto del corpo. È l’espressione del suo essere ma non esaurisce il nostro essere. Essere capaci di visualizzare i pensieri, e le emozioni come eventi che abitano il nostro orizzonte di conoscenza (una conoscenza sovra concettuale) ad un livello successivo permette di dissociarsi da essi. Essere in grado di non identificarsi con essi. Venire a contatto con l’autonomia del pensiero che prescinde dalla nostra volontà, permette di concepire la mente come funzione di un organo. Quello che resta immutato, è la qualità di questa attenzione. Provare un’emozione è un’esperienza molto coinvolgente, che di solito determina una immediatezza di reazione necessaria alla salvaguardia della specie. Ma quanto siamo ancora legati alle primitive reazioni emotive che sperimentiamo quando, ad esempio, si mette in moto in noi il meccanismo fight or flight? E quanto soprattutto abbiamo ancora bisogno di essere così determinati dai nostri stati d’animo indotti da questo tipo di meccanismi e reazioni automatiche?
Si tratta quindi della possibilità di apprendere una nuova capacità di discernimento, che determina un grado piuttosto elevato di libertà, nel passaggio da una reattività automatica ad una risposta efficace.
Il principio è quello di non identificazione con l’emozione, in quanto colui che prova l’emozione, colui che la sperimenta, differisce da colui che pone consapevolezza a quella emozione. La nostra consapevolezza della rabbia, infatti, non è arrabbiata. È una sorta di osservatore neutro. Colui che fa esperienza dell’avvicendarsi, nella mente di diversi pensieri, e nel corpo di diverse sensazioni (un emozione è infatti un insieme di stati fisici che interpretiamo come quella determinata emozione) è libero di scegliere come meglio vivere quell’emozione, come consapevolmente seguire il filo dei pensieri, senza esserne prigioniero.
Questo tipo di pratiche sono utilizzate con successo in ambito anche clinico poiché, (oltre agli effetti a lungo termine della pratica costante sul cervello, e sul corpo nella riduzione dei livelli di stress dell’organismo), essere in grado di non identificarsi con la sofferenza, essere capaci di non assolutizzare la propria sofferenza, rende qualsiasi sofferenza immensamente più sopportabile.
Il cuore della mindfulness, è il saper vivere il momento presente. Affrontiamo temi molto dolorosi, durante la condivisione delle esperienze della pratica. Temi che non devono e non possono essere presi alla leggera, qualcuno vive un lutto, qualcuno l’angoscia di avere una persona cara e vicina in ospedale, e affrontiamo, durante la condivisione, questi temi con la massima presenza collettiva, con il massimo coinvolgimento possibile. E poi vengono affrontati temi sicuramente non meno complessi, ma indubbiamente più leggeri. Ad esempio come si fa ad accettare consapevolmente e dare il benvenuto al sonno durante la pratica seduta senza addormentarsi.
Ma la cosa esaltante della condivisione è che pur saltando da un polo ad un altro di esperienze normalmente considerate opposte, non c’è dissociazione. C’è un vissuto molto intenso, e collettivo, di ogni esperienza, ma non rimangono strascichi. Tutta la sala, durante la condivisione, duecento persone durante la condivisione, partecipano emotivamente e completamente ad un’esperienza dopo l’altra. Si abbandona un’esperienza dopo l’altra, senza trascinarla oltre il momento in cui questa esperienza viene vissuta.
Intraprendiamo questo percorso accogliendo in modo aperto le passioni che ci agitano; come una madre amorevole permettiamo a noi stessi di dedicare uno spazio a quello che proviamo, alle emozioni che sorgono in noi, senza cercare di sfuggire loro. Questo è il sistema per creare un rapporto davvero intimo con quel che siamo, per liberarci dal giudizio costante che operiamo su noi stessi, per schierarci dalla nostra parte.
Purtroppo l’illibertà che sperimentiamo nel mondo occidentale moderno è molto sottile, poiché siamo troppo spesso completamente vittime delle nostre emozioni, agitati dai nostri pensieri, schiavi delle nostre abitudini. si ha la sensazione che le abitudini siano una scelta. Lontani dalle nostre abitudini, in qualsiasi forma esse si manifestino, mentali e non, abbiamo la sensazione di perdere la nostra identità. Ma non è perché la nostra identità è nelle nostre abitudini. È perché ci identifichiamo con esse. Se questo lavoro, questa pratica, è difficile, è perché ci aggrappiamo con immensa forza alle nostre abitudini. A questo proposito vorrei far presente un fatto:
“Il comportamento della scimmia giapponese Macaca Fuscata è stato intensamente studiato dagli etologi per più di trent’anni, osservando un certo numero di colonie selvagge.
Una di queste viveva isolata sull’isola di Koshima, di fronte alla costa occidentale di Kyushu (Giappone), dove nel 1952 l’uomo fornì alle scimmie una “spinta” evolutiva: alcune patate dolci gettate sulla sabbia.
Un giorno una delle femmine raccolse una patata e immerse il tubero nell’acqua, lavandolo con le mani. Le altre scimmie, avendo osservato quest’operazione, impararono anch’esse a lavare così bene i vegetali, che oggi tutte le femmine di quella colonia vanno regolarmente a lavare i tuberi; Questa inconsueta abitudine si trasmette di generazione in generazione.
In seguito, le scimmie cominciarono a lavare anche i semi di cereali che si spargevano nella sabbia e, poco alla volta, perfezionarono il metodo. Invece di lavare i chicchi separatamente, ad uno ad uno, cominciarono a gettarne delle manciate in acqua; i granelli di sabbia andavano sul fondo, mentre i semi, più leggeri, galleggiavano in superficie. I macachi non avevano che da raccoglierli dall’acqua, per mangiarli.”
Questa non è un racconto della tradizione filosofica buddista, ma è la descrizione ossuta di uno studio scientifico. Non c’è bisogno di cercare a lungo per trovarne i risultati, è sufficiente una ricerca in rete.
Ma c’è un implicito di rilevanza filosofica notevole (tralasciando l’abito puramente scientifico) in questo gesto così semplice: recarsi al fiume con una patata sporca, buttarla in acqua e tirarla fuori pulita. I macachi, per lavare le patate se ne separano. Rinunciano a qualcosa di concreto per avere qualcosa di migliore.
È vero che può essere una rinuncia notevole quella a ciò che credevamo essere la nostra personalità. Perdere l’abitudine di dare per scontate quelle che crediamo essere certezze e che fungono da binari, direzionano le nostre vite. Ma con la pratica, con l’apertura mentale, presto potremo vedere i semi leggeri salire a galla, puliti. E sarà sufficiente raccoglierli.
Chiara Silvani
Centro Italiano Studi Mindfulness